Non l’avrebbe mai immaginato la quindicenne Eleonora che “da grande” avrebbe cantato in dialetto brani sia della tradizione popolare che scritti da lei stessa. Da adolescente pensava sì di avere una bella voce, ma anche che la sua strada sarebbe stata quella degli amati rocker inglesi e americani. Il resto, specie il patrimonio popolare della sua Sicilia, le faceva venire in mente lavoro duro, campagna, povertà, un vivere “debole”. Solo quando una ragazza brasiliana le disse, ormai cresciuta, che aveva la voce giusta per una canzone popolare carioca provò a cambiare repertorio. «È diventata una delle mie canzoni preferite», ricorda oggi Eleonora Bordonaro. «Subito dopo ho iniziato a cantare in siciliano, ho ritrovato la mia lingua, mi sono centrata e mi sono creduta e ho cominciato a vedermi come artista.»

foto di Chiara Pasqualini

Un’artista di razza non c’è che dire. Una che dal 2008 è la voce solista dell’Orchestra Popolare Italiana ed è arrivata al quarto lavoro da leader, oltre ad aver partecipato a collaborazioni di alto prestigio, tra cui la partecipazione all’opera I Was Looking At The Ceiling And Then I Saw The Sky del compositore John Adams e aver fondato la Casa Museo del Cantastorie di Paternò, dedicato alla tradizione dei cantori popolari della famosa scuola etnea. E il suo ultimo disco Roda è una vera e propria sfida, oltre a una testimonianza inedita di una lingua e una musica finora note solo agli specialisti più attenti e destinate entrambe a scomparire con gli anni.
«Roda è il primo esperimento di costruzione di un repertorio di gallo-italico di San Fratello, isola linguistica che si è formata in seguito al trasferimento di popolazioni dal Piemonte e dalla Liguria in Sicilia durante il Medioevo», ci spiega Eleonora. «Nasce da una commistione di popoli ed è rimasto intatto nei secoli perché San Fratello è isolata, alla fine di un bosco su un altopiano. Questa lingua meravigliosa non aveva un repertorio musicale. Noi stiamo contribuendo a costruirlo dedicando questo album ai giudei di San Fratello, che sono musicisti popolari, disturbatori della Settimana Santa.
Durante la processione del venerdì santo suonano con le trombe a un pistone delle melodie assordanti, marce, ballabili, come fossero i fustigatori del Cristo. Nei loro abiti da soldati, diavoli, maschere, personaggi di sacre rappresentazioni medievali, molto religiose, fanno scherzi, burle, dispetti, acrobazie. In realtà sono tutti gli abitanti del paese che, dal mercoledì al venerdì di Pasqua, divisi in gruppi di amici, girano per la strade suonando, bevendo, cantando, provocando. Quelli di Roda sono tutti brani originali dedicati a loro, utilizzando il loro mondo sonoro, con musiche e testi che li raccontano e raccontano il borgo con gli occhi di un visitatore esterno. E l’intento è artistico, non musicologico o etnologico.»
Il primo brano Iermanimei (che si può tradurre “animanimale”) è sfolgorante, di una forza totale, che unisce passato, presente e sogno, un viaggio tra molti suoni, un perfetto esempio di grande world music. Più folk il successivo Pinsier, con le trombe militari e le discipline, pendagli di catene e monete che i giudei agitano a tempo. È l’unico brano nato in gallo-italico, mentre gli altri testi, quasi tutti di Bordonaro, sono stati tradotti filologicamente. Amisg è una ballata obliqua e Giuriei, allegra e brillante, descrivono nel loro dialetto incomprensibile proprio quelle brigate di “amici” e di “Giudei” che percorrono il paese di San Fratello durante le festività pasquali.
La successiva Culaur sgargient (“colori sgargianti”) parla dei bellissimi costumi che indossano, mentre la raffinata e velatamente soul “Umbra vaganti” fa riferimento al periodo fascista, quando le loro piazzate erano vietate e si vedevano costretti a farle di nascosto nei vicini boschi dei Nebrodi. La voce magnifica di Eleonora è la protagonista dell’intima Ciro Zzirìan, mentre i Lautari, lo storico gruppo di Catania, la accompagna soprattutto ai plettri, nella lirica La duntanänza, testo di Serafina di Paola, la più grande poetessa sanfratellana vissuta nell’800, e musica di Ambrogio Sparagna. Chiude Airàm Uoi, altro brano formidabile, una preghiera in ricordo della frana che nel 2010 distrusse buona parte di San Fratello e alimentò ancor più l’emigrazione.
«Il folk è cantare gli ultimi, quelli per cui la storia non è stata scritta, racconta una storia parallela rispetto a quella ufficiale», continua Eleonora. «Ha un valore socialmente importante, un’attenzione per la comunità che la politica considera sempre più marginale. Nel mare magnum della produzione discografica invece chi si ispira al canto popolare riporta a istanze condivise della società, ne offre un’attenzione più chiara. Già parlare una lingua di piccole comunità è mettere l’accento su realtà che vivono nel silenzio, aree rurali, piccoli borghi, zone interne, dove sussistono fenomeni che sono trattati marginalmente dalla cronaca e dall’attualità.»
Pensi che l’evoluzione tecnologica e la globalizzazione renderanno uniformi fino a cancellarle queste realtà, sia culturali che musicali?
«In realtà io non ho mai sentito così tante canzoni nei dialetti come adesso che siamo immersi in una cultura pop. Credo che più l’approccio al folk è pop, popolare, diffuso, più il messaggio di salvaguardia di antiche peculiarità e della ricchezza delle lingue viene fruito più facilmente, non rimane tema per studiosi o linguisti oppure chiuso nelle piccole comunità. Più mettiamo nel piatto le nostre peculiarità più siamo speciali, lo sanno e lo fanno in sempre più artisti.

foto di Gianluca Perniciaro

Per favorire il progresso o lo sviluppo negli anni 90 si pensava fosse necessario annullare le situazioni che più ci legavano al territorio e riportavano a un passato di sfruttamento, solitudine, povertà, fatica. Ci imbarazzava l’uso della lingua, del dialetto e di modi di fare che rimandavano a quel mondo. Quello che ha fatto la mia generazione, passata quella stagione, è stato riscoprire che la nostra identità ci fare stare comodi nei nostri panni, in apertura verso il mondo. La mia musica non è mai filologica, è contaminata con tutti i miei ascolti e con tutte le avventure musicali che abbiamo attraversato io e i miei musicisti. È una musica di contaminazione, nella cui struttura è centrale l’utilizzo del dialetto siciliano e del gallo-italico di San Fratello, un paese dei Nebrodi con 3000 persone, in provincia di Messina, di fronte alle Eolie.»

Che dire? Basta citare la cura di oltre 250 cd compilation di new age, jazz, world e quant’altro? Bastano una ventina d’anni di direzione artistica dell’Etnofestival di San Marino? Bastano i dieci come direttore responsabile di Jazz Magazine, Acid Jazz, New Age Music & New Sounds, Etnica & World Music? Oppure, e magari meglio, è sufficiente informare che sono simpatico, tollerante, intelligente... Con quella punta di modestia, che non guasta mai.

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